Photography Gabriele De Rossi
Styling Emi Marchionni
Make-Up and Hair Giorgia Giommoni
Photography assistant Carlotta Franco
DIGITAL COVER STORY
Lilith Primavera wears Total Look Maison Valentino, Accessories Valentino Garavani
Interview Emanuela Ambrosino
Pigneto, una afosa mattina di maggio. Incontro Lilith ed Ernesto, il suo inseparabile amico a quattro zampe. Davanti a un frappè iniziamo a parlare di arte, cinema e diritti, mentre tutti i rumori del risveglio di Roma, tra cantieri e tazzine della colazione, sembrano sparire per lasciare spazio solo alle sue parole.
Sul tuo blog, presentando il tuo podcast Malafemmina, leggiamo una frase che personalmente mi ha colpita molto: “Io sono una donna di spettacolo, io sono uno spettacolo. Molti mi chiedono di definirmi perché sono sopraffatti dal mio essere me stessa senza voler dimostrare nulla. Io parlo la lingua delle donne che non vogliono essere spiegate dall’uomo”. Allora, sulla scia di questa affermazione, vorrei chiederti di raccontarmi chi sei, chi è Lilith Primavera e quali sono le numerose sfaccettature di te stessa che vuoi condividere con noi.
È proprio questo il difficile, a me non piace per niente parlare della parte biografica di me stessa, posso dire che a livello professionale sono entrata nel mondo dello spettacolo iniziando con la performatività perché mi piaceva l’idea di un’espressione fisica che potesse raccontare degli immaginari, un po’ come facevano le femministe delle avanguardie degli anni Settanta. Quando ho iniziato a lavorare mi ispiravo a Guy Debord e al situazionismo, tant’è vero che la parola spettacolo proprio non mi stava bene addosso. Tutto questo, però, mi allontanava da una morbidezza che invece mi apparteneva. Così a un certo punto mi sono detta di voler essere più pop, quindi mi sono lasciata andare a delle forme di spettacolo più d’intrattenimento come cantare, fare serate oppure organizzare eventi, che è comunque un modo per diffondere un certo tipo di cultura, di pensiero. Se fai una canzone invece che un’altra, se organizzi una serata e inviti un dj piuttosto che un altro, se inviti una determinata performer, stai comunque facendo delle scelte, anche culturali, nel territorio o nel quartiere della tua città. Che poi questo mi ha portato in tutta Italia ed Europa, non sono rimasta solo nel quartiere. Poi, altro è fare un lavoro da attrice. È quello che ho sempre sognato ed essere nel cast delle Fate ignoranti mi ha permesso di arrivare a tantissime persone.
Quando e come è iniziata la tua passione per la musica e la recitazione, e, di conseguenza, la tua carriera musicale e di attrice?
La musica mi è sempre piaciuta, io ero fan di Creamy, un cartone animato degli anni Ottanta, la protagonista era una bambina che si trasformava e diventata questa idol manga super pink. Era il mio punto di riferimento e quando ho deciso di cantare l’ho fatto un po’ per gioco. Non sono una cantante, ma ero circondata da persone che lavoravano con la musica e trovandomi in questo clima ho giocato con loro in qualche modo. Per quanto riguarda l’essere attrice, ho sempre sperato di riuscire a lavorare in questo ambito perché è una cosa che mi piace veramente tanto e non metto le cose in compartimenti stagni, è sempre qualcosa che si mischia con le altre parti di me. Nella vita ho seguito molti corsi in giro per il mondo, il corso di mimo con Étienne Decroux a Barcellona, l’Actors Studio a Roma, dei workshop a Berlino, mille cose tutte sparpagliate. Prima studiavo e gestivo una boutique di moda, organizzavo anche dei piccoli eventi, dei vernissage, ma mi sono resa conto che non potevo fare quel lavoro tutta la vita, quindi, a un certo punto, ho deciso di mollarlo e vivere facendo altre forme di arte. Naturalmente non è stato facile, dal guadagnare uno stipendio mi sono ritrovata nel mondo del precariato totale e dell’underground, però l’ho fatto. Inoltre, in quel periodo, avevo questo mio amico del liceo con il quale mi ero persa di vista, che avevo ritrovato dopo tantissimi anni. Sono venuta a sapere che si era ammalato di leucemia, aveva lasciato l’università e deciso di fare esclusivamente quello che gli piaceva ovvero dipingere e, organizzando delle mostre, lo invitai a esporre. Abbiamo fatto questa mostra insieme ed è stata un successo, il suo entusiasmo è stato veramente travolgente. Poco tempo dopo mi squillò il telefono, andai a rispondere, pensavo fosse lui, invece era un nostro amico che mi diceva che era venuto a mancare. In quel momento ho avuto un trauma, perché ho realizzato che lui aveva deciso di dedicarsi interamente a quello che voleva. Aveva davvero passato gli ultimi mesi e attimi della sua vita facendo ciò che amava. Mi sono messa un po’ in discussione, sono andata in crisi e mi sono detta: “Voglio lavorare per sempre in questo campo, nella boutique? No, perché il mio sogno è quest’altro. Devo farlo subito”. Ho mollato tutto e ho iniziato così. Grazie anche al mio amico, Marco, che mi ha lasciato questa grandissima eredità.
Oltre a essere un’attrice e una cantante, sei anche un’attivista che si batte per i diritti della comunità LGBTQI+. Guardandoti intorno, in quale direzione pensi che stiamo andando? Perché è ancora importante parlare di diritti e in che modo dovremmo farlo?
È importante e imprescindibile quindi non mi posso esimere. Non è il momento di stare con la testa sotto la sabbia a fare gli struzzi. Sarebbe bello potersi vivere la propria vita senza dove stare lì, a far notare ogni volta che qualcosa non è giusto. Se dobbiamo continuare a ripeterlo, vuol dire che ancora non abbiamo gli stessi diritti. Sarebbe bellissimo poter vivere senza dover recriminare e fare notare tutto questo. Quando saremo tutelati da leggi che pongono per davvero tutti gli individui sul medesimo livello, con stessi diritti e doveri, sarà bello non dover mettere in continuazione i puntini sulle i. Finché questo non succede, allora bisogna farlo. Perché non è giusto che le donne siano pagate meno degli uomini, che le persone vengano discriminate su vari fronti, che ci sia un certo tipo di bullismo nelle scuole che non permette ai più giovani di esprimersi liberamente. Si parlava di quote rosa, ora si parla di quote LGBTQI+. Inoltre, bisogna continuare a battersi anche per tutte quelle persone che non vengono rappresentate in maniera non differenziata nelle serie o nei film. In alcune serie tv fortunatamente non è cosi, vedi Summer o Bangla. Poi però le produzioni italiane per la grande distribuzione televisiva spesso e volentieri non mostrano neanche una persona per esempio nera che faccia una parte come tutte le altre. Figuriamoci per le persone trans. Io ho scritto alcune cose che spero di riuscire a far realizzare. Bisogna inserire tutte le persone e rappresentarle come se nulla fosse. Perché se vai a farti le analisi del sangue trovi l’infermiera trans. Capito che voglio dire? Lo ripeto sempre un po’ monocorde perché diventa ciò che mi trovo a dover dire, è necessario. Per me non è facile vivere anche perché ci sono queste cose sul lavoro. Ora che ho fatto una parte, voglio vedere se hanno capito. Ho fatto vedere quanto sono brava, no? Mo, fateme lavorà! Per questo bisogna continuare a parlarne. Perché anche se ho sviluppato delle professionalità e sono capace, mi attacco al tram e come me moltissimi altri. Io non voglio fare la mosca bianca, siamo tantissime e tantissimi. Tra l’altro, nel cinema le donne sono meno rappresentate degli uomini, figuriamoci le donne non standardizzate. Anche se vedo oggettivamente grandi cambiamenti in Italia e soprattutto dalle produzioni che ci arrivano dall’estero.
È uscita da poco la serie Le fate ignoranti di Ferzan Özpetek, parlaci della tua fata, chi è Vera? Cosa ti ha lasciato e cosa si è presa di te?
Vera è una fata fortunata perché si ritrova in una situazione corale di amicizie che le danno e a cui lei dà reciprocamente supporto, amore e gli schiaffetti che servono per andare avanti. Nonostante sia una persona che ha avuto grandi difficoltà, è andata via dalla famiglia. Si è rapportata con tutta una serie di discriminazioni perché è una donna trans, reagisce con esuberanza e passione alle cose che succedono sia a lei sia alle altre fate. Per me è stato divertente e bellissimo farle cambiare atteggiamento fisico dalla prima puntata all’ultima. Col fisico mi è piaciuto giocare a un cambiamento di postura mano a mano che gli autori le facevano fare i conti con varie situazioni da risolvere, che lei decide di risolvere. A partire dal trauma della perdita dell’amico comune, il quale ha poi generato tante altre situazioni. Lei cambia proprio postura, cambia anche lo sguardo, ed è stato divertente fare questo lavoro. Sono state piccole cose che a me è piaciuto farle fare. Nel momento in cui sono entrata in contatto con il personaggio, mi ha fatto tornare una spensieratezza, una freschezza, una giocosità e giovinezza che non avevo più. Ero uscita da una pesantezza data da un inverno di chiusura a causa della pandemia e lei mi ha ridato un grande sprint. Mi ha lasciato questo entusiasmo, quindi Vera mi ha fatto veramente un bel regalo. Lei è sempre qui, ha voglia di continuare a giocare. Invece, pensando a ciò che ha preso di me, so che per tirare fuori delle emozioni particolari sono andata a scavare e a ritirare fuori degli episodi della mia vita. In un paio di occasioni ho dovuto fare delle analogie con cose del passato, a cui non pensavo più. Naturalmente quando questi collegamenti sono più emotivi e tristi, è più difficile. Sta qui il lavoro dell’attrice.
Nel mondo del cinema e dello spettacolo ci sono poche Vere e purtroppo si dà poco spazio a temi come quello della transessualità, il quale non è ancora rappresentato come si dovrebbe. Così, i giovani hanno pochi modelli da seguire. Credi che questo possa cambiare?
Allora, io credo che l’essere una persona trans, nel mio caso una donna trans, possa essere rappresentato in diversi modi, perché ci sono tanti modi di essere una persona trans e altrettanti di essere una donna trans. In Vera troviamo un modo di essere una donna trans. Alcuni a cui siamo stati abituati sono più stereotipati e stigmatizzanti, e sono quelli che magari fanno più arrabbiare. Sono quelli che creano difficoltà relazionali, vanno a perpetuare uno stigma e uno stereotipo come l’essere necessariamente una prostituta. Con tutto il rispetto della professione della prostituta, perché è un lavoro, non è che deve esserci un’analogia per forza. Ci sono tanti modi di raccontare le persone trans e tanti modi di raccontare le donne trans. Per me è importante ribadire che Vera non è una trans, è una donna trans, come ci sono le donne alte, albine e bionde. Questo è importante. Quindi io auspico che questo discorso rientri nella questione più generale della rappresentatività dei media, nelle produzioni televisive e cinematografiche, che possano rappresentare tutta la bellissima varietà che c’è in giro e che ci sia la possibilità di raccontare i tanti modi di essere persone trans, così come ce ne sono di raccontare la grande varietà di persone che esistono. Bisogna dare lavoro a tutte quelle persone che hanno caratteristiche professionali per spendersi in questo. Sono veramente ottimista perché, come dicevo prima, le produzioni stanno facendo dei piccoli cambiamenti. Per esempio, abbiamo Pose e produzioni inglesi in cui tutto questo c’è. Auspico che questa cosa avvenga anche qui in Italia, presto. Penso a chi sta già lavorando per farlo e alle nuove generazioni. Ma non abbassiamo la guardia, perché tutte le cose che vengono conquistate non è detto che poi si mantengano, quindi bisogna rimanere sul pezzo. Questo vale per tutto, per tutte le conquiste politiche.
Il tuo personaggio, come tu stessa in quanto donna di spettacolo, è un punto di riferimento per chi si rivede nella tua storia. Nella tua infanzia hai avuto modelli che ti hanno aiutata nel tuo percorso di transizione?
All’inizio degli anni Novanta ho visto Belle al bar con Eva Robin’s. È stata la prima volta in cui ho sentito che una rappresentazione potesse essere risonante rispetto a qualcosa a cui ancora non riuscivo a dare un nome. Erano anni in cui non c’era tutta l’informazione di adesso. Il mio immaginario non aveva altro con cui potesse combaciare. Questo è l’unico esempio che mi viene in mente, non avevo Internet.
Infatti, la tua è una storia di rivoluzione e trasformazione, come è stato viverla negli anni Novanta?
Era appunto un’epoca analogica: ci incontravamo sui muretti, nei localini, ed era una vita molto più semplice. Non c’erano app per incontri. Quindi l’ho vissuta come una magia, perché non avevo le parole per raccontare quanto mi stava succedendo. Nella magia, ho incontrato delle persone. Mi ricordo di questa ragazza sudamericana, con dei capelli favolosi che faceva roteare in aria, sul muretto dietro al Colosseo dove ci trovavamo la sera. Si chiamava Cristina. Mi ricordo di averla guardata e aver detto: “Mio Dio! Forse è qualcosa che mi risuona!”. Dopo dieci giorni stavo prendendo ormoni. E lo facevo con una sfrontatezza tipica forse dei dodici anni, ero proprio una ragazzina. Non è come adesso che vai sui blog e ti informi, vai sulle chat e ti confronti, parli con moltissime persone, hai degli esempi, delle statistiche mediche… io non sapevo nulla. Per me era quasi quel parimpamnpu di Creamy, era magia. Poi mi sono fatta seguire, ho fatto tutte le cose a modo perché stiamo parlando comunque della scelta di prendere ormoni. Ci sono persone che decidono di non farlo e non cambia niente. Assolutamente: liberi tutti. C’è gente che sceglie di sottoporsi alla chirurgia e chi sceglie il contrario, non è questo che attesta una condizione transgender. L’importante è che ci si prenda sempre cura di se stessi e se stesse, qualsiasi cosa si decida di fare.
Guardando al futuro, ho due domande: cosa sogni o immagini per la comunità LGBTQI+? Che progetti hai, cosa desideri per il tuo futuro artistico personale?
Per la comunità LGBTQI+ immagino un futuro in cui il diritto del singolo venga prima di tutto, per cui l’autodeterminazione di ogni singola persona venga riconosciuta come cosa indiscutibile, per cui, se io non faccio male a nessuno, nessuno deve fare male a me. Un mondo nel quale io posso fare quello che voglio di me stessa, del mio corpo, stare con chi mi pare e fare tutto ciò che voglio per stare bene senza che nessuno si metta a sindacare. Ciò non toglie che si creino comunque delle comunità, non dico che non dovrebbe esserci la comunità LGBTQI+. Non si tratta di considerare ciascun individuo soltanto nella sua singolarità. È un discorso di autodeterminazione della persona, per cui ci sono dei diritti incontrovertibili e indiscutibili che, se riconosciuti, mi permetterebbero di muovermi nella società senza essere discriminata e di campà serena, lavorando e facendo ciò che sono capace di fare. Poi, spero che ci siano dei bei Pride a giugno. Voglio ballare e cantare, ho una canzone nuova, S.T.A.R.., che uscirà presto. E invece per me, come dicevo prima, sono a disposizione per interpretare e giocare a tanti ruoli nuovi (anche per non avere il problema dell’affitto e delle bollette, ecco