Photography Gioele Vettraiano
Styling Emi Marchionni
Make Up Vanessa Forlini @makingbeauty.management
Hair Christian Vigliotta @makingbeauty.management
DADA’ @coco_district @donermusic
DIGITAL COVER STORY
DADA’ wears total look HUI
Interview Serena Palmese
Ciao DADA’! Un nome fugace il tuo, e un falso palindromo. Se non ci fosse l’accento potremmo fare riferimento a quel movimento artistico e letterario che metteva in discussione i fondamenti tradizionali dell’arte e della cultura, negando tutti i valori razionali ed esaltando gli atti gratuiti e arbitrari dell’individuo. “Dada”, nel mondo dell’arte, è una parola che non significa nulla e ricorda il primo balbettio emesso dai bambini; si racconta che il termine sia stato scelto dai dadaisti aprendo a caso il vocabolario francese. Se la funzione principale del Dadaismo era quella di distruggere una concezione oramai vecchia e desueta dell’arte, qual è l’obiettivo della tua musica?
Nel mio caso è un apostrofo, come omaggio all’ortografia napoletana, che però si legge accentato. È un segno grafico che ricorda una finestrella aperta, che deve ricordarmi di essere sempre aperta verso ciò che sono e vorrò essere, dove il filo conduttore di tutto è la mia Voce, il mio timbro; il resto è un girotondo intorno, una festa di possibilità. “Da-da” è un suono tipico della lallazione infantile, un suono attraverso cui tutti dobbiamo passare inevitabilmente per cominciare a parlare, comunicare. Io voglio passare sempre per questa parte così morbida, innocente e piccola di me stessa per trovare il mio racconto. Rubo dal Dadaismo il proposito di partire da un “sentire” e non da una regola, ma non intendo distruggere niente, voglio soltanto accettare il caos, perché so che nel mezzo c’è sempre qualcosa. Io mi chiamo Gaia e mitologicamente nasco dal Kaos, nel mio disordine ritrovo l’ordine… e questa libertà organizzativa per me vale dal cassetto delle calze sino alle canzoni. Non indosso gioielli, se non per poche ore al massimo, non voglio sentirmi legata; ho bisogno di legarmi, come tutti gli esseri umani, ma poi devo poter volare dove voglio. Secondo me l’artista è un adolescente travestito da adulto, diviso tra bisogno di riconoscimento, anzi rispecchiamento, e dall’istinto a scappare lontano, emancipandosi. L’obiettivo della mia musica è lo stesso che pongo per la mia persona: vivere, possibilmente nella maniera più teatrale che ci sia, tra il buio e la luce, il normale e lo straordinario. E poi sono contenta perché il pubblico mi fa scoprire altri messaggi nei miei stessi lavori e quindi penso che io abbia fatto centro nel mio piccolo, perché la vita è così: davanti a un solo cielo si possono fare infiniti pensieri, dalle infinite interpretazioni. Dada vuole distruggere, DADA’ vuole fondare una possibilità, come quando ti si rompevano i pantaloni da piccina e la nonna con una toppa ridava vita a tutto, ma nell’imprevisto, nell’incoerenza. Carmelo Bene diceva: “Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può”.
David Bowie si chiedeva «is there life on Mars?». Io invece ti chiedo: c’è vita dopo X Factor? All’interno del talent ti sei fatta notare da molti sia per lo stile eclettico ma in qualche modo sempre molto vicino ai suoni da club, sia per le preziose collaborazioni con producer di un certo calibro. Il tuo è stato il percorso più interessante per ricerca di originalità e costruzione identitaria, e direi tra i più importanti per come ti ha messo in luce. Come funziona la macchina del talent? E quanto sta influendo sulla tua carriera musicale? Se parliamo di Festival, da poco si è concluso uno dei più importanti della storia italiana, quello dell’Ariston; durante un’intervista, a Manuel Agnelli è stato chiesto se il palco di Sanremo sia un po’ una via obbligatoria per affermarsi come artisti. Lui ha risposto chiaramente no. Negli ultimi anni, dopo tanto tempo, quel palco è tornato a rappresentare la musica italiana soprattutto mainstream, e quindi a non essere più soltanto un programma televisivo. Per cui, in un periodo in cui tutti sembrano puntare a fare San Siro sold out, Sanremo ha ritrovato la sua funzione ma non è l’unica via per emergere. Cosa ne pensi? Quel palco è mai stato nella tua “lista delle cose da fare prima di morire”?
C’è vita soltanto dopo X Factor per quanto mi riguarda. Nel mentre succede tutto perché la grande esposizione mediatica ti aiuta a remare più veloce verso la visibilità, no? Io ho scoperto di aver remato così tanto tra i miei propositi che ormai ho fatto i muscoletti e riesco ad assecondare la grande spinta che questo talent mi ha dato. Come funziona la macchina dei talent? Funziona che non lo so! Mi sono sempre rifiutata di parteciparvi, anche per paura. Questo era il momento giusto per me, nonostante sia stato al contempo l’anno più dispersivo e fruttuoso della mia vita. Ho saggiato sulla mia pelle quella massima per cui: “Non puoi cogliere un fiore, senza turbare una stella”. Nel pantano degli attacchi di panico e di sofferenze profonde ho scoperto sul palco di X Factor una mia forza automatica, di sopravvivenza, che mi ha lasciata a bocca aperta. Devo molto a X Factor anche sul piano personale, perché è come se mi avessero messo davanti a un grosso cartone animato e io, distratta, ho finito tutto il piatto di cose belle che mi hanno messo davanti, senza lasciare briciole e recuperando un po’ di forze e salute. Sanremo? Mi piacerebbe andarci, perché no, ma alle mie condizioni, altrimenti no. Come quando esco di casa e mamma mi rimprovera, scherzando, perché ho abbinato almeno sei colori, ma io esco lo stesso. È un altro palco molto bello, sono d’accordo con Manuel Agnelli per quanto riguarda l’esclusività.
Parliamo di dialetto. Siamo entrambe sibille del sud, viviamo dei colori di quel parlato che si respira nei quartieri, nei bassi del centro storico e siamo sicure che una parola detta in dialetto esprima meglio il concetto. Checché se ne dica sugli stereotipi partenopei, Emanuele Palumbo in arte Geolier ha più volte parlato del desiderio di voler istituire una scuola di dialetto napoletano per trasformarlo in una lingua universale. In un momento storico in cui un album interamente in dialetto (parlo dell’ultimo, “Il coraggio dei bambini”) arriva ai primi posti delle classifiche mondiali di ascolti guadagnandosi un certo rispetto anche alla Sony Universal di New York, pensi possa essere sdoganato il dialetto napoletano che diventa una vera e propria sonorità reperibile a tutti, piuttosto che una lingua solo “regionale”? Tu stessa parli del dialetto come idioma del corpo e del cuore, per cui sei ispirata dalla genialità sbrigativa e dalla profondità emotiva di questa lingua, ma non pensi possa essere un limite per un futuro di pretese più largo e ampio?
Sarebbe bello prendersi il merito di questo sdoganamento della lingua napoletana, ma per me è già stata sdoganata in passato: penso a Carosone primo in classifica a New York anni fa, nel pieno di un’armonia tutta sua e in un panorama cool, che all’epoca abbracciava il jazz. Per me non esistono limiti per il napoletano, non in maniera presuntuosa, ma perché “Funiculì Funiculà” è del 1880 ed è una delle canzoni più riconosciute al mondo; la musica napoletana ha aperto le porte alla melodica italiana, chi studia lo sa. Forse ci sono più preconcetti e paletti oggi. Tutti cantano “Alors on danse” di Stromae mentre ballano in disco, ma quanti ne conoscono il significato profondamente malinconico ed evasivo? Questo non per dire che il racconto passa in secondo piano rispetto al suono che attrae, ma che la lingua non ha porte chiuse e la nostra curiosità spesso resta stravaccata nella stanza della pigrizia. Che oggi si possa poi ritornare a toccare la punta dell’Empire State Building con le proprie note dà sicuramente la carica e sono contenta che Emanuele ci sia riuscito. Per la scuola di napoletano, mi accodo e aggiungo che sarebbe bello diffondere anche la corretta ortografia e non solo la parlata, proprio a testimonianza che non si tratta di una parentesi folkloristica sprovveduta. C’è una letteratura illustre, ben scritta e pensata, che prende le mosse da Basile, passa per Di Giacomo, De Filippo e rotola fino ai giorni nostri.
Le tue influenze sono molto chiare, da quelle più esotiche e tribali a quelle più elettroniche. Il risultato è un caleidoscopio di suoni uniti in maniera del tutto personale. Il tuo è quasi un sottogenere nuovo, qualcosa che nella scena napoletana comincia a muoversi anche con artisti come La Nina, SVM e la voce dei Nu Genea, rispetto alla scena nazionale dove non si vedono tantissime “popstar” femminili in cima alle classifiche. Secondo te perché? Per la tua musica a quali artisti ti ispiri? E quando hai deciso di fondere queste sonorità al dialetto?
Il Femminile è una realtà artistica già di per sé, la donna è sempre stata dall’altra parte come musa ispiratrice. È ora di scavalcare una serie di barriere e passare dall’altro lato. Per natura cicliche, portiamo in grembo boccioli di creatività, ma anche solo nel pensiero. Il Femminile ha nel suo cuore l’Idea, a prescindere dal sesso. La forza espressiva sta nella verità e ci sono molte verità femminili che meritano attenzioni, ascolto, posto. Se guardo un quadro in cui è raffigurata una donna ho sempre la sensazione che non basti quello spazio per rappresentare il suo mondo; anche se l’immagine è ferma, io la vedo in movimento, come se volesse rompere la cornice ed esistere oltre. Sono sicura che ci sia spazio per tutti, a patto che venga concesso e riconosciuto. A quali sonorità mi ispiro? Ho sempre ascoltato molta musica diversa, da Björk a Carosone, da Petrucciani a Nile Rodgers, da Debussy ai Foo Fighters. Nella mia musica è importante l’incontro di tutti questi mondi; ho sofferto in adolescenza nell’incapacità di non riuscire a riconoscere la mia Voce. Poi, durante il lockdown, dopo aver mutato varie pelli musicali, passando per quella folk alla Joni Mitchell e Tom Waits in inglese o in italiano, ho sentito nel mio cuore un richiamo particolare, un’intuizione, un verso animale; seguendolo ho scoperto che era il mio istinto che stava ruggendo in napoletano e nell’incoscienza più totale, forse figlia di quegli studi rigorosi precedenti, sono nate davanti ai miei occhi un sacco di canzoni che sembravano raccontarsi da sole. A me forse sta soltanto il merito di averle accolte. Per esistere bisogna accogliersi.
La tua personalità è un miscuglio di contaminazioni, dall’identità visiva a quella musicale e artistica, penso ai videoclip di Cavala e Mammamà intrisi di erotismo sonoro e visivo. Se la fluidità non ha genere e cambia nel tempo a seconda delle situazioni, quanto è fluida DADA’?
La fluidità credo sia alla base dell’essere umano e non solo a livello sessuale. È la capacità di essere flessibili tra le geometrie, di sperimentare la divergenza e le qualità simboliche che permeano l’esistenza. DADA’ cerca la sua libera misura in ogni cosa e non è né troppo rigida, perché vorrebbe dire fissarsi al terreno, né troppo fluida, perché potrebbe rischiare la fusione con l’Alterità. Per conoscere se stessi e fluire è fondamentale mettere alla prova i propri confini; avere un confine non vuol dire avere un limite o un argine, ma percepirsi. Da lì si può scegliere poi se sgorgare come acqua, passando da un contenitore all’altro, ma senza cambiare sapore. Bello, no?
Una canzone di Ivan Graziani diceva: «Dada aveva un dono grande, quello di saper parlare». Hai in programma l’uscita di un disco? Se è vero che sai parlare, parlaci ti prego!
Questa di Graziani non la sapevo, ma mi piace un sacco, anche perché crescendo ho imparato cosa vuol dire parlare e che anche i silenzi hanno parole. Nel prisma delle mie imperfezioni ho capito, grazie soprattutto agli altri, che mi riesce bene raccontare, che sia in una canzone o davanti a un tè con un amico; mi piace giocare con la fantasia e la realtà, come fossero due bambole e farle baciare sotto l’occhio e l’orecchio attento di chi mi segue. Per me raccontare vuol dire testimoniare a me stessa che sto vivendo. Ho tante cose già pronte e in lavorazione, spero presto di condividerle con il pubblico e magari mi direte voi se ho “parlato bello”, come direbbe mia nonna.osi precedenti, sono nate davanti ai miei occhi un sacco di canzoni che sembravano raccontarsi da sole. A me forse sta soltanto il merito di averle accolte. Per esistere bisogna accogliersi.