Love and Resistance: Francesco Costabile

Photography Jordi A. Bello Tabbbi
Styling Emi Marchionni
Make Up and Hair Chiara Gabriele @makingbeautymanagement

DIGITAL COVER STORY

Francesco Costabile wears all clothing Alchetipo

Interview Emi Marchionni

Come ha influenzato la tua identità di genere il tuo approccio alla regia e alla narrazione cinematografica? Difficile dare una risposta lucida e oggettiva, sono dentro il mio vissuto e non riesco ad avere una consapevolezza piena di quello che vivo.. Sicuramente la mia identità è da sempre percepita come un’anomalia, rispetto al panorama etero normativo, rispetto ad un mondo trans che si adegua ai codici binari, rispetto al mondo del cinema che vede nelle donne una sorta di “comunità da proteggere” con una verticalità di potere sconcertante. Io sono cresciuto nell’isolamento, nell’ambiguità, ho scelto un percorso di transizione non conforme ed in continua evoluzione, cerco di ascoltare il mio corpo e restituirne una narrazione. Come persona marginalizzata, ho dovuto combattere con rabbia e determinazione e conquistarmi lo spazio che oggi ho nel cinema italiano. Tutto questo finisce, inevitabilmente, per influenzare il mio cinema. Oggi ci sono tantissime sorelle e tanti fratelli pronti a decostruire la narrazione cinematografica. Purtroppo in Italia la politica è più forte, spegne queste voci, dobbiamo combattere per farci ascoltare.

Quali sfide hai affrontato nel settore cinematografico a causa della tua identità non binaria? Quando ho iniziato a lavorare sul set il mio aiuto regista mi disse: “cresciti la barba, stai meglio”. Il sottotesto era ovviamente un altro. Ho abbandonato il mondo del set per sfuggire alla mascolinità tossica. Ancora oggi non vengo considerata come persona non binaria, per l’industria sono e resterò un uomo, almeno finché non adeguerò i miei documenti ad un genere ben preciso. Troppo spesso mi sono sentita dire: “mi spiace ma cerchiamo registe donne” oppure “ è importante che ci siamo registe donne in concorso”. Per l’industria cinematografica resto e resterò un uomo cisgender. La nostra categoria, sono una persona trans non binaria, semplicemente non esiste nel cinema italiano. Io rivendico la libertà di chiamarmi Francesco e sentirmi una figa pazzesca.

Hai mai sentito la pressione di conformarti a norme di genere tradizionali per ottenere maggiori opportunità nel settore?
Come ti ho già spiegato se avessi adeguato i miei documenti avrei avuto vita più facile sia sul piano lavorativo che sociale. Il mio percorso identitario è molto più profondo e non voglio adeguarmi a nessuna norma che possa farmi sentire capita e ascoltata da un’industria e da una società sorda e sclerotizzata nelle sue repressioni sessuali.

In che modo la tua esperienza personale ha influenzato la rappresentazione della violenza e della famiglia nei tuoi film?
Credo che i miei film siano delle rappresentazioni poetiche e catartiche della violenza. La violenza ci attira, ci seduce, ci fa paura. Bisogna imparare a conoscerla, per non subirla, per sapersi difendere. Bisogna imparare a non restarne sedotti, a non sprofondare nella sua ombra. Io la violenza l’ho attraversata per tutta la vita, l’ho subita sulla mia pelle e continuo a viverla come corpo che sfugge alle regole sociali, corpo desiderato ma spesso violentato, deriso, stigmatizzato. Io vivo costantemente in una trincea di guerra, fatta; il cinema mi permette di raccontarmi, di combattere politicamente il sistema patriarcale che ci opprime.

Nel film Familia, esplori la complessità della violenza domestica e le sue ripercussioni sui giovani. Come hai bilanciato la rappresentazione della brutalità con la necessità di sensibilizzare il pubblico senza risultare eccessivamente grafico? Nella rappresentazione cinematografica la violenza passa sempre attraverso la sottrazione ed il fuori campo. È troppo facile sbattere in faccia allo spettatore un abuso, uno stupro, un’aggressione. Si diventa anche morbosi nel fare tutto ciò. Lo spettatore deve sbirciare, percepire in autonomia, cogliere la brutalità della vita nelle piccole cose. I miei film sono estremamente violenti sul lato psicologico, ma non c’è nulla di troppo esibito. E questo rende tutto ancora più terrificante. Meglio tenere una porta chiusa o almeno socchiusa, per osservare questa violenza

La storia di Luigi in Familia è profondamente segnata dalla ricerca di appartenenza e dalla rabbia derivante da traumi familiari. Come hai lavorato con gli attori per trasmettere autenticamente queste emozioni intense e complesse sullo schermo? Come regista non amo imporre la mia visione agli attori. Mi aspetto che ogni attore sia padrone della propria interpretazione, mi piace essere sorpreso, spiazzato. Cerco sempre di mettere l’attore nella posizione di far lavorare la parte istintiva. La razionalizzazione, la meccanicità, è la morte del cinema.

Come gestisci le aspettative del pubblico e della critica riguardo ai tuoi lavori? Purtroppo ho un grosso problema nel confronto del giudizio. Spesso il giudizio è autoritario, patriarcale, maschilista. Essere sottoposta a giudizio mi fa stare male, mi fa andare fuori di testa. È una condizione inconscia legata ai traumi di un’infanzia costantemente misurata al giudizio degli altri. Per me i film sono come figli, vanno valorizzati anche nei loro difetti. Per cui evito di leggere le critiche ai miei film per non incazzarmi. È come se qualcuno venisse da tuo figlio e ti dicesse: “carino tuo figlio, peccato per quelle orecchie a sventola” io quelle orecchie le rivendico e le devo difendere. E posso essere molto feroce, come tutte le madri. Attenzione quindi a misurare le vostre parole, posso mordere.

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