Bold Spirit : Dario Aita

Photography Jordi A. Bello Tabbi
Styling Emi Marchionni
Grooming Chiara Allegro

Dario @othersrl

DIGITAL COVER STORY

Dario Aita wears total look Saint Laurent

Interview Emi Marchionn

Nato a Palermo nel 1987, Dario Aita si è affermato come uno degli attori italiani più talentuosi della sua generazione, grazie alla sua formazione presso il teatro Stabile di Genova e alle sue interpretazioni versatili. Ha conquistato il pubblico con ruoli in produzioni cinematografiche e televisive, tra cui spicca la sua recente performance nel lm “Parthenope” di Paolo Sorrentino.

In che modo il tuo background personale e culturale ha influenzato la tua interpretazione dei personaggi nei tuoi lm e spettacoli teatrali?
In tutti i modi possibili. Sono nato e cresciuto al Sud, a Palermo, in Sicilia, un luogo in cui la storia e il mito si fondono e non si distinguono quasi, e in cui le necessità hanno creato storicamente un humus favorevole alla finzione, alla mistificazione e alla trasfigurazione del reale; una terra in cui la narrazione dell’esistere è spesso estroflessa, debordante nella stessa misura in cui spesso lo è l’arte. Penso sia quello che deve succedere nel cinema: i conni tra realtà e immaginario devono cedere spazio ad un nuovo evento che rappresenti una luogo a sé, trasfigurato, misterioso, affascinante e leggermente estroflesso. E poi non posso escludere i miei anni di studio e l’incontro con alcuni dei miei insegnanti, esponenti di quella nutrita compagine di intellettuali palermitani, che mi hanno spalancato le porte della curiosità, del mondo, dell’arte, e mi hanno iniziato all’abbandono del giudizio, della morale facile, del consueto.

Qual è stata la tua esperienza nel ruolo di Sandrino nel film “Parthenope” di Paolo Sorrentino?
Le parole di P.S. sono come delle finestre aperte su infiniti orizzonti. E questo perché racconta in poesia. Quando si ha a che fare con la prosa, all’interprete non resta che fare una scelta, rivolgere lo sguardo verso un’orizzonte possibile e fissarlo. Nel caso di un film di Sorrentino, nell’incontro con un linguaggio poetico, un’interprete deve provare ad abbracciare l’infinito, il mistero e perdersi nell’immagine. Di solito gli attori hanno bisogno di sentirsi al centro della scena, mentre nel momento in cui ho iniziato a girare con Paolo ho sentito, più che in qualsiasi altro momento, di far parte di un grande quadro in cui l’interprete è un elemento, per quanto essenziale, di un’immagine in cui tanti elementi convivono e devono necessariamente parlarsi tra loro. Leggendo la sceneggiatura hai come l’impressione di trovarti nelle nozze di Cana del Veronese, in cui ogni personaggio ha la sua storia personalissima, in profonda relazione con la scena, e sembra perdersi nel tutto ma ne è parte essenziale. Bisogna vivere in quel tutto, in sintonia con gli elementi, come si farebbe in un momento di fusione panica nella natura.

Quali sono stati i momenti più significativi sul set di “Parthenope” che ti hanno lasciato un’impressione duratura? Sono tanti i momenti impressi nella mia memoria, dentro e fuori dal set. É stato un periodo di lavoro intenso e di incontri felici, come quello con i colleghi con cui ho condiviso questa esperienza, in particolare Celeste Dalla Porta e Daniele Rienzo, in compagnia dei quali ho trascorso del tempo prezioso, umanamente e professionalmente. Ricordo nitidamente la meraviglia di svegliarsi alle tre del mattino per ritrovarsi poco dopo tra gli scogli di una Capri deserta, e vederla passare dal buio alla luce tiepida della primissima alba, per girare alcune tra le scene più delicate del film. E ancora un’altra alba quando ancora assonnato, seppur non convocato, andai sul set alle cinque del mattino, per vedere Gary Oldman che girava la sua prima scena, silenzioso e commovente, seduto ad un tavolino dell’hotel Quisisana, davanti ad una composizione di bicchieri vuoti: un’immagine che non dimenticherò mai. E poi ricordo questo momento: la macchina da presa si avvicinava lentamente inquadrando il costume di Parthenope steso ad asciugare su una sedia, davanti ad una finestra, dalle tende mosse dal vento, aperta sull’orizzonte del mare di Napoli; era una soggettiva di Sandrino che si avvicinava a quel feticcio d’amore. La soggettiva si sarebbe trasformata da lì a poco in un oggettiva con il mio ingresso nell’inquadratura. Io seguivo la macchina da presa e riuscivo a vedere l’immagine sul monitor, e pensavo che stavo per l’appunto entrando in un quadro, in un’immagine meravigliosamente poetica, e che avrei dovuto essere all’altezza di quell’immagine. Pensavo che sarebbe stato bello poter recitare come quel costume, o quella tenda mossa dal vento. Ho respirato e sono entrato nel quadro.

Puoi descrivere il processo creativo che segui per entrare in sintonia con un personaggio come quelli che hai interpretato? Sui processi creativi temo sempre che diventi un fatto tecnico e che possa annoiare, ma proverò ugualmente a riassumerne alcuni. Intanto mi sento di dire che i processi cambiano di volta in volta a secondo delle esigenze, ma conservano delle costanti. Ci sono di punti dai quali non riesco a prescindere. Il primo, e forse uno dei più complessi, è quello di provare a leggere la sceneggiatura come un lettore puro, non condizionato dal ruolo che dovrai interpretare. In seguito provare a leggere il proprio personaggio abbandonando qualsiasi possibile giudizio sul suo agire; perdonare al proprio personaggio qualsiasi cosa e accoglierlo. Anche questo non è del tutto semplice, perché per perdonare i propri personaggi bisogna prima di tutto perdonare sé stessi. E poi affidarsi all’istinto, scegliere una frase o un’evento che ci ha particolarmente colpito e chiederci :”perchè questa parola, questa frase, questo gesto, ha risuonato così tanto in me?”, e partire da lì per scoprire a quale porta dentro di noi sta bussando quel personaggio. Poi non ci resta che provare ad aprirgli la porta. Da lì comincia un percorso un pò più tecnico. Chiedersi innanzi tutto quel’è la nostra funzione all’interno del racconto, ma soprattutto quali sono le nostre relazioni con gli altri personaggi. A questo punto può iniziare il meraviglioso gioco delle parti, in cui si comincia a giocare al gioco dell’altro, quello in cui iniziamo a trasformarci, ma soprattuto ad incontrare l’altro in scena, il nostro collega. Ecco quello è il momento più importante perché lo sguardo dell’altro ci rivela tutto quello che non sapevamo fino a quel momento. É chiaramente più bello quando a questo gioco prendono parte tutti, quando è condiviso. Sotto a tutto questo, come un costante tappeto sonoro, c’è la ricerca continua di suggestioni, il nutrimento della memoria e dell’immaginario, attraverso la scrittura, la lettura, la fotografia, l’arte figurativa e il cinema stesso. Le narrazioni confluiscono, le immagini si sovrappongono , i confini si sbiadiscono e tutto nel migliore dei casi inizia a ruotare introno a quell’unico obiettivo: la ricerca di un’anima.

Come pensi che il cinema italiano stia evolvendo in termini di inclusività e rappresentazione delle diversità? Quali passi concreti credi siano ancora necessari? Non solo il cinema ma tutta la nostra società sta evolvendo in termini di inclusività. Penso che il percorso sia ancora lungo, ma che si sia sulla buona strada. Veniamo da secoli di drammaturgie teatrali e di sceneggiature fortemente squilibrate sul racconto di uomini di mezzo età bianchi cis etc etc…Credo che sia arrivato finalmente il momento di aprire gli orizzonti e riportare al centro l’ago della bilancia. La scelta di P.S. ad esempio di raccontare per la prima volta una protagonista femminile, mi sembra anche espressione di questa nuova tendenza. Sento che per un regista che ha sempre raccontato un mondo popolato sopratutto da uomini, sia stato un atto di grande coraggio scegliere di raccontare una giovane donna. Un atto di coraggio, un rischio e una responsabilità: per un maschio bianco cis est etc… è una grande responsabilità oggi raccontare il femminile. Anche sul racconto del maschile Parthenope fa un bel salto in avanti. I personaggi di Raimondo e Sandrino ad esempio sono meravigliosi esponenti, seppur in modo diverso, di un nuovo raconto della mascolinità. Mi sento però di dire che, seppur sono certo che la narrazione del reale abbia un effetto concreto sul cambiamento del reale, e che tutti ci auguriamo un cambiamento in meglio della nostra società, e che quindi il cinema debba lavorare in quel senso, allo stesso tempo non si possa appiattire un opera artistica all’interno di una morale granitica, ma bisogna continuare a raccontare le fragilità, le incoerenze, le storture dell’animo umano, cercando di comprendere prima che di giudicare. Questa libertà necessaria al momento creativo, a volte temo possa essere inibita da certe nuove tendenze narrative che nei peggiori dei casi provano a dare risposte anziché porre delle domande. In merito ai passi concreti rimango convinto che il cinema, l’arte, la questione di genere e l’inclusività rischino di arroccarsi nelle roccaforti di un idealismo elitario se non si discute di questioni prettamente politiche, socioeconomiche. La questione di genere è legata indissolubilmente alla questione del potere, che è legata materialisticamente a fattori economici. Non si può parlare di questione di genere e inclusività senza parlare di riformare l’ordine sociale, rispetto al potere, alla pace, alla redistribuzione delle risorse e ad un nuovo concetto di equità sociale.

Qual è la tua visione riguardo il ruolo del cinema nella società moderna e come credi che possa contribuire a un cambiamento sociale significativo? Siegfried Kracauer scriveva che lo schermo cinematografico è come lo scudo di Atena che Perseo usa per sconfiggere la medusa. La realtà che nella sua crudezza ci pietrificherebbe se la guardassimo dritta negli occhi, rivelandosi trasfigurata sullo schermo cinematografico, ci permette di vederla ed elaborarla, ripensarla forse. Una tra le questioni principali in merito al ruolo dell’arte è: se è vero che è la realtà ad influenzare l’arte, quanto invece l’arte stessa può agire per modificare la realtà? Che potere ha il racconto del reale su un cambiato del reale? Credo che abbia un potere importante, e tornando alla questione precedente, che sia assolutamente necessario quindi cavalcare una certa tendenza narrativa, -dribblando il rischio di cadere nel modaiolo- per creare i presupposti di una racconto differente del reale e dunque di un modo di vedere il mondo differente e dunque di un mondo differente. L’essere umano si distingue da qualsiasi altro essere vivente conosciuto, anche per la sua capacità di raccontarsi. Ed è raccontandoci che cresciamo ed evolviamo. E il racconto di noi stessi ha un potere indubbio sul nostro percorso evolutivo e deve necessariamente raccontarci al contempo quello che siamo, che siamo stati, ma sopratutto cosa avremmo potuto essere e cosa potremmo o potremo essere.

In che modo collabori con registi e altri attori per creare un’interpretazione autentica e coinvolgente? Ascolto. Nel caso dei registi provo a scoprire quale storia vogliano raccontare e provo a portare la mia storia ad incontrarsi con la loro. Non sempre le due strade si incontrano perché magari siamo arrivati sul set con un idea troppo precisa di quello che avremmo voluto fare e in quei casi potrebbe essere utile chiudere gli occhi e lasciarsi guidare, fidarsi; quando poi gli occhi si aprono, all’improvviso ci si trova in un paesaggio sconosciuto e sorprendente; e questo è un grande regalo.Con i colleghi è differente. Mi piace scoprirli a poco a poco, cercando di giocare al gioco delle parti. Spero sempre di non scoprire troppo di loro, di mantenere il mistero e la curiosità delle loro vite private, ma allo stesso tempo condividere con loro momenti di una certa intimità rara che avvengono a volte solo negli incontri artistici. Mi illudo di riuscire a conoscere un essere umano molto meglio durante una scena che non durante una cena. Spesso attraverso i filtri dei personaggi riusciamo ad essere molto più onesti, trasparenti, sinceri di quanto non riusciamo ad esserlo nella vita reale. Sembra un paradosso lo ammetto, ma per me è così. Ecco con i miei colleghi provo a lavorare su una tensione che porti a quell’incontro in cui scopriamo con stupore immenso una parte delle nostre anime, e ci guardiamo negli occhi come fosse la prima volta.

Quali sono i tuoi prossimi progetti ? I primi mesi del 2025 li dedicherò un pò al teatro; un luogo al quale devo tornare continuamente. Lavorerò al teatro Biondo di Palermo ne “Il calapranzi” di H. Pinter, a fianco di Giuseppe Scoditti, con la regia di Roberto Rustioni. Poi sarò alla biennale di Venezia per un reading su Meister Eckhart insieme alle bravissime Leda Kreider e Federica Fracassi e ad un coro gregoriano, con la regia di Antonello Pocetti. Poi ritorno alla serialità con un progetto Rai del quale ancora non posso parlare.

C’è un ruolo o un genere che non hai ancora esplorato ma ti piacerebbe affrontare? Si. Un giorno vorrei interpretare Gesù Cristo. Vi lascio con questo botta di modestia.

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