Bold and Proud: Pietro Turano

Photography Jordi A. Bello Tabbi
Styling  Giulio Cascini
Grooming Francesca Calaresu

DIGITAL COVER STORY
Pietro Turano wears total look Salvatore Ferragamo

Interview Chiara Buoni

Spesso all’inizio delle interviste si pone la domanda chi sei? non avendo poi modo di approfondire davvero. Vorrei evitare questo interrogativo difficile e aggrapparmi a un escamotage, cioè a una tua presentazione per differenza: chi è Pietro Turano di fronte a Filippo Sava, il personaggio che hai interpretato in SKAM Italia?
Di fronte a Filippo Sava sono probabilmente la persona che lo sta ascoltando. Sono più silenzioso, timido, curioso di conoscere l’altro da me e, con una punta di presunzione, capire cosa c’è sotto l’immagine che chi mi è di fronte sta presentando di sé. Ci sono d’altronde anche molti punti di contatto, ma meno di quelli che le persone si aspettano. Mi dicono “vabbè il tuo personaggio sei tu, è uguale a te” e io lo prendo come un gran complimento di prova attoriale. Per me recitare non è tutta finzione, non è andare altrove da sé, ma portare l’altrove dentro il perimetro del proprio corpo. In questo senso fra me e Filippo Sava ci sono infiniti punti di contatto, che coincidono con l’incontro e scontro che avviene nelle mie braccia, nelle mie gambe, nella mia bocca.

Nella dimensione pubblica, sei un attore e attivista, e ovviamente intendo chiederti dei tuoi progetti lavorativi e sociali; ma mi piacerebbe capire anche come vivi nella tua sfera intima (e spero non privata) tutto ciò, ossia cosa c’è al di qua dei ruoli che il sistema utilizza per schematizzare, semplificare e velocizzare.
Quello che voglio fare è portare avanti una battaglia attraverso e dentro la cultura, specialmente nel contesto dell’audiovisivo, continuando ad alimentare il dialogo fra le mie anime e a mettere in crisi quel sistema che ci vuole monolitici. Ho due grandi progetti per la testa: il primo è una proposta creativa che sia anche un manifesto politico, senza bisogno di dichiararlo: che lo sia nei fatti, per sua natura. Il secondo progetto è più collettivo, partecipativo, un’offerta per la città di Roma e per l’Italia, la costruzione di uno spazio d’incontro sul cinema e la comunità LGBT+. Nella sfera intima e personale c’è una grande insicurezza di fondo, un senso di fallibilità e incapacità immobilizzante, che però mi aiutano a non dare nulla per scontato e a prendermi possibilmente meno sul serio (non sempre funziona). Poi c’è una famiglia insieme al mio compagno, grazie alla quale ogni giorno si mettono in ordine le matasse e si alimenta un fuoco che ci investe. Per il resto c’è una grande ricerca al di là dei contesti che mi assomigliano. Mi infilo continuamente in territori che sembrano non appartenermi, li uso come specchi per conoscere il mondo attraverso il contrasto. Perché la somiglianza nasconde, mentre la differenza svela.

Ci racconti come si è svolto il Pride a Roma lo scorso 11 giugno, spiegandoci perché partecipare è un atto di lucidità politica e non di mera ludicità espressiva?
È stato un bellissimo Pride come lo sono tutti quelli che stanno riempendo le città italiane in queste settimane, le persone avevano bisogno di riappropriarsi di quello spazio sia espressivo sia politico. Era mancato molto. Ci abituiamo rapidamente all’assenza, ma quando le cose sono o tornano presenti diventano immediatamente dirompenti. Soprattutto, in un momento storico in cui la materialità dei corpi viene sempre meno e non solo per i distanziamenti sociali forzati, la possibilità di ritrovarsi fisicamente insieme è la cosa più politica che esista: perché la politica è tutto ciò che si sceglie e si afferma e il corpo è un fatto innegabile, la presenza è la manifestazione della vita che accade. 

Sul piano dell’espressione, trovo affascinante il modo in cui le persone si aggregano per il Pride e riempiono con vitalità spazi cittadini altrimenti investiti da ripetitività e contenimento. Perché l’energia che si sprigiona mette in imbarazzo alcuni? E poi, a proposito di luoghi, cosa pensi dei quartieri dell’emancipazione? Arriverà il giorno in cui tutto l’agglomerato urbano sarà un’estensione di via San Giovanni in Laterano a Roma?
L’imbarazzo nasce dalla volontà di sottrazione rispetto a sé, rispetto a chi si è. Le persone non vogliono mettere in discussione la proprie sicurezze intimamente rassicuranti. Ma le persone LGBT+ si trovano costrette per natura a guardarsi dentro e a riconoscersi, per differenza, rispetto ai modelli a cui gli è stato chiesto di somigliare. Sentirsi “fuori” mette nella condizione di doversi chiedere prima o poi: perché, chi, dove, quando, come, con chi. Ciò può mettere in crisi chi invece queste domande non vuole farsele, pur sapendo di averle dentro come chiunque altro. Quello che ha capito la comunità LGBT+ molto tempo fa è che la paura di morire, intesa come paura di non poter esistere, è una spinta di vita e la vita è una festa. Rispetto ai luoghi penso sia necessario avere spazi protetti e sicuri, ma lavorare allo stesso tempo affinché ogni luogo, abitandolo, non sia più esclusivo o di prevaricazione. Una gay street serve a noi per poter respirare, non a chi non la vive per pensare che allora non siamo un suo problema.

In un’intervista YouTube sul Canale di Venti, esponi un concetto di società a due facce: una è sessuofobica, l’altra è ipersessualizzata. Sono due eccessi che conferiscono uno squilibrio essenzialmente negativo o i sintomi di una crisi necessaria per conquistare una sanità spirituale?
Sono due eccessi che ci raccontano l’ipocrisia della nostra società, che guarda agli individui come strumenti di potere e oggetti, anziché soggetti: desideranti, politici, vivi. La crisi è a pieno regime, ce lo raccontano i dati spaventosi sulla sessualità dei giovani e delle giovani di oggi, paralizzati e paralizzate. Con ricadute emotive, psicologiche, fisiche, relazionali, identitarie. Ma è una crisi subita, passiva, mortifera. Inoltre, una società che ci bombarda di stimoli sessuali nella misura in cui attraverso il sesso ci rende schiavi, ma sessuofobica rispetto alla consapevolezza e all’esercizio delle nostre vite e identità. Non è un problema solo relativo al tema della sessualità e dell’identità, ma anche alla struttura di potere che subiamo e che sta sotto a tutte le cose. È anche e soprattutto uno specchio del sistema malsano in cui siamo inseriti e inserite. 

C’è un sistema scolastico italiano dal quale aspettarci un coming out? Che posizione hanno assunto le istituzioni rispetto all’educazione sessuale e quali cambiamenti strutturali dovremmo esigere dalle stesse?
La scuola è un altro specchio dell’ipocrisia e del conservatorismo generale. Anzi, ne è la palestra. La scuola oggi insegna a essere funzioni dipendenti, a reprimere e a morire, e ad oggi chi vive la scuola ne subisce il ruolo. Lo switch deve avvenire a monte: quando saremo in grado di riaffermare l’individuo come soggetto politico, diventeremo attori e attrici delle nostre vite e della società e così la scuola come ogni altro contesto si plasmeranno a nostra immagine e bisogno, anziché il contrario. D’altra parte però i sistemi vanno forzati, quindi è necessario inserirsi nelle intercapedini e nelle fratture. Questo è quello che fa l’attivismo: insinuarsi e contaminare

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