Embracing Love : We are everywhere

Photography Aldo Giarelli
Styling Aldo Giarelli, Francesca Tumminello, Olympia De Molossi
Make Up and Hair Asja Redolfi, Rosanna Curci, Laura Fioretti
Flower Design Arianna dell’Opera
Assistant Giulia Gandini
Models Alessandra Musso, Andrea Lucci, Giulia Wanda Petruzzelli, Lorenzo Fedon, Marina Cuollo, Samuele Saponetto, Medea, Sem e Stenn, Susanna

DIGITAL COVER STORY

Lorenzo Bevacqua wears minidress Etre, jewels La Manso

“We are everywhere” è il motto usato nelle rivolte della comunità LGBT+ negli anni ’70 e ’80. Un’affermazione, una richiesta di essere visti ma anche una (neanche troppo) velata minaccia. Siamo ovunque, siamo dove non vuoi vedere e dove non vorresti. Siamo soprattutto nelle pieghe di quella norma imposta che ci va stretta. Il mondo della moda ha come riferimenti degli standard di corpi e di bellezza. Alcunə stilistə hanno provato a rompere gli schemi proponendo un’estetica alternativa, una ribellione in seno al sistema creando immagini senza l’intento di compiacere e rassicurare lo sguardo borghese di chi pensa che la parola “modellə” sia sinonimo di canone estetico. Mi piacerebbe proporre una visione della moda queer. Oggi essere queer significa far parte di di una comunità che accoglie tutte le persone. A volte è un termine di cui si abusa per indicare chi non si riconosce in un binarismo eteronormato. Altre volte è semplicemente pop o cool dirsi queer. Ma queer, nella sua radice, è il fastidio, la rabbia e il rifiuto. Negli anni ’70 le persone queer dichiaravano guerra nelle loro fanzine a gay e lesbiche che lottavano per dei diritti che erano normati (e quindi concessi) da persone etero. Essere queer significava lottare per distruggere le identità, non per affermarle o per un’accettazione borghese della diversità. L’elemento di liberazione nella storia è sempre stato il sesso. Il sesso è normato, costretto, disciplinato, moralizzato. L’autodeterminazione passa attraverso un corpo sessuale, che sia attivo o semplicemente abitato. Ma allo stesso tempo è un linguaggio comune a tuttə, che scavalca qualsiasi differenza, che trasforma oggetti, persone e situazioni in desideri. Voglio unire il fastidio, la scomodità, i corpi, la moda ed il sesso perchè non credo nella rivoluzione gentile. Solo guardando quello che abbiamo sempre nascosto sotto il tappeto possiamo allargare i nostri orizzonti culturali e civili. La scomodità di un’immagine che non riflette il bello standardizzato e che propone non più un oggetto sessuale ma un soggetto sessuale porta lo spettatore in un terreno di domande e di incertezza, in cui, in maniera non gentile, si ribalta la condizione di potere tra chi guarda e chi viene guardato. È doveroso anche far presente che in questo progetto non ci sono tutti i corpi la cui esistenza è scomoda al sistema, e questo resta sicuramente un limite. Allo stesso tempo però questo non vuole essere un contenitore, qualcosa di finito e chiuso, ma un progetto in divenire da cui partire per raggiungere tutte le istanze. Con la consapevolezza che alla visione queer interessa ben poco del fatto che si cambi idea: interessa esistere.

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